Il fotografo Roberto Bossaglia presenta, per la prima volta al pubblico, il suo ultimo progetto dal titolo Incontri (2013-2015).
Nelle quindici nitide e raffinate immagini a colori selezionate per la mostra, Roma e Parigi costituiscono lo scenario di un’ulteriore ricerca intorno alla dimensione urbana e metropolitana, che il fotografo conduce da molti anni or sono e sempre con rigore visivo.
Nel testo critico che accompagna l’esposizione, Francesco Faeta osserva che “dietro questo impianto rigoroso e concettualmente intransigente, in realtà, si nasconde un metodo di lavoro che fa sua l’impostazione baudelairiana e benjaminiana del flâneur, un’attitudine a comprendere la realtà urbana e lo spazio cittadino, attraverso l’incontro, attraverso un’interna disposizione al vagabondaggio, alla contemplazione distaccata (e ciò che grandemente meraviglia è la capacità di tenere assieme le due posture, fondendole in una prassi originale e spiazzante).”
“Sia a Roma che a Parigi” – prosegue nella sua analisi Faeta – “la presenza e l’opera dei writers, costituisce da anni fenomeno tutt’altro che marginale dello spazio urbano, assai documentato e studiato. Ma l’arte di strada non interessa a Bossaglia in quanto fenomeno legato all’antropologia urbana o all’ampliamento delle forme d’espressività artistica, ma come elemento originale e peculiare che consente di rileggere la qualità del tessuto viario, delle costruzioni marginali e non monumentali, delle periferie, dei non luoghi (Marc Augé), dello scenario in cui quotidianamente s’inscrive il vissuto cittadino. […]
Poche, rarefatte, solitarie, tutt’altro che inessenziali, le figure umane, delineate sullo sfondo della trama disegnata ed edificata dello spazio urbano; assai spesso tocca a loro, al loro tenue segno essente, di significare in profondità quella poetica del dettaglio. Con un duplice compito: quello di porre in rilievo l’elemento spaziale e urbanistico che il fotografo ha incontrato; quello di sottolineare la dimensione solitaria che le sue passeggiate svelano. Più inclini a imbattersi nei segni variopinti e muti dentro cui si muovono che in se stesse o in altri, le presenze umane sembrano evocare quella solitudine dei numeri primi, di cui ci ha narrato Paolo Giordano (e che sicuramente è nelle corde del nostro autore); ‘quelle entità che i matematici chiamano primi gemelli: […] coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi davvero’ e che ricordano le tante persone ‘sole e perdute, vicine ma non abbastanza per sfiorarsi davvero.’
Non ci indica, Bossaglia, il segreto di questi isolamenti, ma certamente ci conduce per mano a individuare un nuovo tassello di quella dimensione solitaria della metropoli che ha saputo descrivere con magistrale poeticità.“
Selezione opere
Gallery
Testo critico
Incontri
di Francesco Faeta
Le nitide e raffinate immagini di Roberto Bossaglia, esposte a Roma, presso la galleria Maja Arte Contemporanea, costituiscono continuazione, con il consueto rigore visivo, della lunga ricerca che il fotografo ha intrapreso, ormai molti anni or sono, intorno alla dimensione urbana e metropolitana. Una ricerca che lo ha portato a misurarsi, nel tempo, con centri molto diversi l’uno dall’altro (Napoli, Roma, Torino, Milano e il suo hinterland, Parigi, Monaco), in possesso però di idee e pratiche molto nette e caratterizzate dello spazio e dell’architettura. Roma e Parigi costituiscono anche lo scenario di questo ulteriore esperimento di misurazione della visione cittadina, condotto in continuità con quelli precedenti, ma anche con evidenti elementi di discontinuità e innovatività.
Proverò a ricordare, innanzitutto, in modo assai sintetico, ciò che, a mio avviso, unifica la presente ricerca alla corposa esplorazione dello spazio urbano condotta in passato; proverò, poi, ad additare alcuni degli elementi che la caratterizzano in modo originale.
Sul primo versante va ricordata, innanzitutto, la particolare cifra culturale che l’autore impiega al cospetto dello spazio urbano. Bossaglia possiede una formazione matematica e scientifica, ha un approccio che definirei strutturalista alla realtà che rappresenta, che gli consente di fare i conti con il carattere sintetico e analitico della fotografia, proviene da un contesto professionale rigorosamente impegnativo, qual è quello della fotografia di architettura, esercitata per anni con risultati di eccellenza.
Certamente, una cosa sono, per lui, le immagini realizzate su committenza, che tendenzialmente postulano una restituzione esatta e tecnicamente orientata delle architetture, altra cosa quelle che pongono attenzione alle architetture come segno dell’uomo, cui egli ha dedicato il suo particolare impegno creativo. Tuttavia, anche quando si cimenta in quest’ultima direzione, Bossaglia esercita uno sguardo asciutto, condotto, sperimentalmente, sino al limite della perfezione tecnica (si tratti di far uscire, a esempio, dalla superficie delle sue carte baritate, “intonate” e virate al selenio e all’oro, da lui stesso magistralmente trattate, tutta la grana materica e tutta la luce occidentale delle pareti romane, o di restituire, attraverso le stampe lambda di grande formato il plein air interamente a fuoco dello spazio parigino), quasi a indurre nell’osservatore l’idea di essere di fronte a una riproduzione a uso specialistico di ciò che è rappresentato (a un documento), per spiazzarlo poi attraverso la messe di riferimenti colti e autoriali deposti sulla superficie dell’immagine. Credo sia stato per primo Cesare De Seta, anni fa, a sottolineare il carattere di costrutto visivo delle immagini di Bossaglia, la loro identità architettonica, per così dire. Non posso che confermare, a distanza di tempo, la perspicuità di questa analisi. Bossaglia opera una lettura dello spazio che non è mera riproduzione o documentazione, ma, in omaggio all’idea wittgensteiniana di definizione dell’immagine, un modello concettuale della realtà. Le sue fotografie sanno cogliere la nozione di spazio che è sottesa a una determinata plasmazione architettonica o urbanistica e, anche per questo, si costituiscono come tessera importante della rappresentazione antropologica della realtà urbana.
Dietro questo impianto rigoroso e concettualmente intransigente, in realtà, si nasconde un metodo di lavoro che fa sua l’impostazione baudelairiana e benjaminiana del flâneur, un’attitudine a comprendere la realtà urbana e lo spazio cittadino, attraverso l’incontro, attraverso un’interna disposizione al vagabondaggio, alla contemplazione distaccata (e ciò che grandemente meraviglia è la capacità di tenere assieme le due posture, fondendole in una prassi originale e spiazzante).
Com’è ampiamente noto, Baudelaire ci ha fornito una prima, sia pur implicita, definizione della figura del flâneur, ponendola proprio in relazione con i problemi della rappresentazione. Rispetto allo scacco delle arti e della letteratura al cospetto della metropoli moderna – e tale metropoli era per lui, naturalmente, Parigi -, rispetto all’accelerare incontrollato del tempo urbano e al decomporsi delle prospettive ottiche interne alla metropoli moderna, rispetto al gioco di specchi e nascondimenti cui la società urbana va incontro mentre si mostra per via, occorre recuperare una postura détaché, contemplativa, altera e non utilitaristica, che consenta di superare o aggirare lo scacco conoscitivo che la città infligge. Il flâneur è, dunque, colui che vaga per la città, trasformandola in un labirinto che cambia di senso a ogni passo, che si rinnova prospetticamente a ogni angolo di strada, rimirandola in modo ozioso, ma traendo proprio da questa oziosa distanza, elementi di conoscenza e comprensione che ai più sfuggono. Il flâneur, per Baudelaire, è essenzialmente un rifondatore dell’esperienza artistica, messa in scacco dalla dimensione metropolitana, ma è anche, comunque, a suo modo, un etnografo. Il segreto dell’efficacia della sua etnografia, tuttavia, risiede proprio nella mancanza di un focus tematico e di una sistematicità.
Per Benjamin, invece, che largamente riprende e reinterpreta le impostazioni dello scrittore e poeta francese, il flâneur è l’unico esploratore possibile della dimensione urbana, colui che mosso dalla consapevolezza del carattere storico della formazione che osserva, ne deduce forma e sostanza da relazioni imprevedibili, discordi, disomogenee. La percorrenza dello spazio lo mette in condizione di esperire tali relazioni significative.
Sembra di scorgere, nel complesso del lavoro di Bossaglia, echi sapientemente plasmati della dimensione poetica di Baudelaire e di quella razionalistica di Benjamin (forse è qui il segreto di quella grande meraviglia di cui sopra ho scritto).
Ritrovo tutto ciò che ho sin qui riassunto dentro la superficie di questi incontri, come egli ha voluto opportunamente definire la nuova serie di immagini. Ma vi è anche quell’elemento di novità cui ho fatto cenno.
In questa circostanza, infatti, Bossaglia muta la scala della sua osservazione, entrando nella dimensione del dettaglio che, se da un lato ricorda l’insegnamento warburghiano (il buon Dio risiede nel dettaglio), dall’altro produce una poetica dell’estraniamento del tutto originale nell’ambito del suo impegno di lettura metropolitana. Sia a Roma che a Parigi (come del resto in altre grandi città occidentali), la presenza e l’opera dei writers, costituisce da anni fenomeno tutt’altro che marginale dello spazio urbano, assai documentato e studiato. Ma l’arte di strada non interessa a Bossaglia in quanto fenomeno legato all’antropologia urbana o all’ampliamento delle forme d’espressività artistica, ma come elemento originale e peculiare che consente di rileggere la qualità del tessuto viario, delle costruzioni marginali e non monumentali, delle periferie, dei non luoghi (Marc Angé), dello scenario in cui quotidianamente s’inscrive il vissuto cittadino.
Ho prima scritto del dettaglio, e può sembrare paradossale tale definizione per fotografie in campo lungo, o comunque con angoli di ripresa molto ampi e che racchiudono masse importanti e complesse di informazioni. Ma il dettaglio si dispone nelle fotografie di Bossaglia, mantenendo intatta la sua alterità rispetto al tutto, rimanendo pienamente leggibile, in sé, pur nell’affollamento dei segni, rinviando con sapienza ad altro dettaglio poco discosto, a lui collegato dalla sapiente composizione visiva dell’immagine.
Poche, rarefatte, solitarie, ma direi tutt’altro che inessenziali, le figure umane, delineate sullo sfondo della trama disegnata ed edificata dello spazio urbano; assai spesso tocca a loro, al loro tenue segno essente, di significare in profondità quella poetica del dettaglio di cui sopra scrivevo. Con una duplice funzione (o con un duplice compito): quello di porre in rilievo l’elemento spaziale e urbanistico che il fotografo ha incontrato; quello di sottolineare la dimensione solitaria che le sue passeggiate svelano. Più inclini a imbattersi nei segni variopinti e muti dentro cui si muovono che in se stesse o in altri, le presenze umane sembrano evocare quella solitudine dei numeri primi, di cui ci ha narrato Paolo Giordano (e che sicuramente è nelle corde del nostro autore); quelle entità che “i matematici chiamano primi gemelli: […] coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi davvero” e che ricordano le tante persone “sole e perdute, vicine ma non abbastanza per sfiorarsi davvero”.
Non ci indica, Bossaglia, il segreto di questi isolamenti, ma certamente ci conduce per mano a individuare un nuovo tassello di quella dimensione solitaria della metropoli che ha saputo descrivere con magistrale poeticità.
Isola di Vulcano, 20 agosto del 2015