Tutto è mio, niente mi appartiene,
nessuna proprietà per la memoria,
e mio finché guardo […]
– Wislawa Szymborska, Elegia di viaggio, 1962
Alla sua prima personale negli spazi della galleria Maja Arte Contemporanea, Veronica Della Porta presenta undici opere inedite realizzate tra il 2009 e il 2017.
Scrive Nora Iosia nel testo critico che accompagna l’esposizione:
“Un album di undici immagini per questa seconda mostra personale di Veronica Della Porta, fotografie digitali su supporto di metallo, a presentare il lavoro di un arco di tempo, dal 2009 al 2017, in cui la poetica dell’artista si dichiara a piena voce: la felicità dello sguardo, che grazie alla facilità e alla immediatezza del mezzo fotografico, trova la sua possibilità, e gioca a richiamare alla memoria per il tempo appena necessario di uno scatto ciò che sfugge costantemente… il tempo e la memoria stessa.
La fotografia dunque non è che un pretesto poetico, una licenza poetica, perché Veronica Della Porta non è un fotografo nel senso più classico e acquisito del termine, non sussiste nel suo lavoro la domanda tecnica, né tanto meno l’interesse alla tiratura fotografica: sono infatti tutte immagini dove la matrice viene utilizzata in una sola occasione, come in un gesto pittorico unico e irripetibile; ci troviamo di fronte a delle carte in cui l’impressione fotografica è più affine ad una impressione grafica e pittorica, alleggerita dal peso della materia, libera da ogni schiavitù e tensione tecnica.
Grandi i formati di queste carte, in una esaltazione massima degli spazi a dilatare i dettagli e aumentare come in una cassa di risonanza emotiva il tema dell’assenza, del fuori scena, in un contrappunto costante tra l’immaginazione ancella dell’attimo e la realtà unica e possibile del qui ed ora imbevuta di immobilità del tempo. Una sorta di appunti dello sguardo a cercare spazi privati narranti, tracce di storie irripetibili, dettagli di forme che seducono l’occhio per un attimo ancora prima che il tempo passi come un estremo tentativo di scampare al dramma del divenire.
Le finestre in bianco e nero (“Oblò” del 2010, “Omaggio a Le Corbusier” 2012 e “Finestra con tenda” 2014) sono un elemento ricorrente negli anni: il fascino della forma-finestra a cui è affidata l’irruzione della luce sulla scena, dettaglio di possibili accadimenti, al tempo stesso punto di fuga dello sguardo e del pensiero.
In “Omaggio a Le Corbusier” la scena si apre su una coppia di lavandini silenti, in un tempo rarefatto come la luce che la finestra elargisce… di qui qualcuno passa o sta per passare, tutto è a vista, anche il possibile, il bello è affidato all’equilibrio tra il dentro e il fuori che la finestra suggerisce e in questo luogo persiste non dissacrato in alcun modo; “La finestra con tenda” richiama all’immaginazione ritratto di donna o modella in uno studio d’artista, o ancora un autoritratto: ne resta traccia tra le pieghe del tessuto o lungo la tenda un po’ discosta. Le forme anche qui sono indizi narrativi, sempre ricomponibili in nuove trame, in nuovi ritmi.
“Annunciazione” è un’opera dove gli elementi rintracciati dallo sguardo (la finestra con la luce dall’alto, la porta e l’arco del muro) suggeriscono mille immagini di Madonne a cui l’Angelo porta il verbo, e lo spettatore rintraccia le proprie figure, perché questo luogo con la porta aperta sullo sfondo sembra chiamare a sé i personaggi mettendo a fianco spazio umano e spazio divino, tutto può accadere oppure può essere accaduto, anche lo svolazzare della cappa dell’Angelo che irrompe dall’alto.
Nelle due opere della serie “Lampade” l’artista gioca la sua partita con la vanitas dell’esistenza, lasciando spuntare coraggiosamente il profumo di una metafora, quella della luce come presenza, del tempo come luce concessa e della festa come metafora della vita. E ancora “Vanitas” persiste nelle quattro nature morte perché qui forme e colori affiorano in tanta bellezza disposti come a suggellare un patto finale con la condizione di fragilità dell’esistenza tutta, la bellezza non si racconta, non è nelle parole, vive dello stupore di chi guarda.”
– Nora Iosia, novembre 2017