A 95 anni dalla nascita di Diane Arbus (14 marzo 1923), Maja Arte Contemporanea le rende omaggio presentando un ciclo di dipinti inediti del pittore Angelo Titonel.
In mostra venti ritratti dei protagonisti dei celebri scatti della fotografa americana, dipinti dall’artista veneto “al negativo” per potenziarne l’indagine psicologica sulla scia della straordinaria attitudine della Arbus di penetrare l’intima emotività dei suoi soggetti.
Scrive Francesco Faeta a proposito della mostra: “In questo spazio romano, la pittura s’impadronisce della fotografia, attraverso le sue tracce referenziali, pur se liberamente dimensionate, e tramite la sua matrice negativa; e la fotografia s’impadronisce della pittura, rubandole il colore e la sua capacità di creare risonanze impreviste e inusitate, secondo le regole di una tavolozza liberamente creata dall’autore. […]”
Come osserva Claudio Strinati: “Titonel […] rievoca l’immagine del negativo come concetto morale ma anche come metafora appunto fotografica, per riformulare ancora una volta e in una chiave alquanto inattesa la sua costante idea della pittura. Un’idea che sembra riflettere la celebrata sentenza di Jim Morrison a proposito delle intenzioni della sua arte consistente in ‘to deliver people from the limited ways in which they see and feel’. Dove l’immagine è un’ombra, una traccia priva di spessore ma carica di un’ansietà che la spinge verso l’esterno di se stessa. Ma questo esterno non esiste perché il repertorio figurativo di Titonel è l’immagine dell’anima, su esplicita dichiarazione dell’autore, e questa non ha spessore fisico.”
Infine Strinati conclude la sua riflessione annotando: “Adesso Titonel trae alcune conseguenze importanti dalle complesse elaborazioni che ha inseguito per tutta la vita e ne dà una matura formulazione in questo corpo a corpo con Diane Arbus, né venerata né derisa, ma assunta a modello di un vero e proprio ingigantimento del suo discorso figurativo che assume peso e spessore riguadagnando una presenza fisica che preme letteralmente sulle coscienze di chi osserva e potrebbe chiedersi, dubbioso: ma dove veramente vuole arrivare un artista del genere? Pensa veramente di potersi affacciare sull’abisso della vita che vede oltre se stessa proprio mentre resta duramente incardinata sulla soglia della sparizione e dell’angoscia? E deve ammettere che resiste, invece, energicamente.“
Selezione opere
Gallery
Testo critico
Visibile e invisibile
di Claudio Strinati
Nello stesso mese e nello stesso anno, luglio 1971, scompaiono la fotografa Diane Arbus e il musicista Jim Morrison, due miti inquietanti e formidabili del Novecento. La Arbus, nata nel 1923, aveva vent’anni più di Morrison ma la disperata tensione intellettuale e morale che portò entrambi alla morte è affine. La Arbus si è suicidata mentre Morrison fu ritrovato cadavere nella vasca da bagno della sua casa di Parigi senza che le cause del decesso venissero mai accertate, ma in entrambi i casi si intravede chiaramente la lacerazione spaventosa e insuperabile piombata come una mannaia, alla fine degli anni sessanta, su artisti di varie provenienze e tendenze, specie americani, devastati da un’ansia di vivere confinante con il terrore dell’impossibilità di conseguire un qualsivoglia livello di felicità e benessere. Artisti approdati precocemente a una sorta di “cupio dissolvi” che lasciò sconvolti gli ammiratori e confinò quelle esperienze in una sorta di inattingibile iperuranio dove l’artista dialoga con un al di là che è l’unico dominio possibile per la perentoria affermazione della positiva concretezza della attività creativa. Tale dominio è, però, il negativo. Titonel, nell’affrontare questa sorta di ispezione subliminale nel mondo di Diane Arbus, riformula questi audaci pensieri da una prospettiva molto lontana da quella degli americani degli anni settanta e rievoca l’immagine del negativo come concetto morale ma anche come metafora appunto fotografica, per riformulare ancora una volta e in una chiave alquanto inattesa la sua costante idea della pittura. Un’idea che sembra riflettere proprio la celebrata sentenza di Morrison a proposito delle intenzioni della sua arte consistente in “to deliver people from the limited ways in wich they see and feel”.
Dove l’immagine è un’ombra, una traccia priva di spessore ma carica di un’ansietà che la spinge verso l’esterno di se stessa. Ma questo esterno non esiste perché il repertorio figurativo di Titonel è l’immagine dell’anima, su esplicita dichiarazione dell’autore, e questa non ha spessore fisico.
Allora il Maestro lavora sulle immagini della Arbus che sono connotate in sé di tremenda negatività e nel contempo di ardente aspirazione a una forma di bellezza che è l’antiedonismo per antonomasia, per calare con la sua pittura sulle immagini rese incorporee a cui restituisce invece una fisicità evidente dove la logica e il paradosso sembrano convivere senza intralci e senza mai scantonare nella dimensione della facile ironia.
La sua dimensione, piuttosto, che si è voluto definire tante volte come quella di una sorta di realismo magico, sarebbe piuttosto da vedere come lo stimolo alla scoperta di una vera e propria alchimia visiva cui l’artista imprime un marchio di allucinato realismo.
E’ interessante l’immaginario che ne promana, come da una catena di immagini che, nata da Freaks, il celebrato film di Tod Browning che tanto peso ebbe sulla elaborazione dell’immagine di Diane Arbus (e siamo nel 1932 quando la Arbus era un ragazzina) transita appunto nella strategia creativa della grande fotografa e si consegna poi a un’altra espressione cinematografica epocale, quella di Shining di Stanley Kubrick, un’opera cruciale nella cultura del secolo scorso, del 1980. E’ in quel tempo che Titonel lavora intensamente su questa sua strana e insolita avventura creativa che in parte lo connette alla Pop romana in parte lo dirige verso le allucinazioni visive ed emotive del rock americano bruscamente intralciato e subito ripensato appunto all’inizio degli anni settanta.
Adesso Titonel trae alcune conseguenze importanti dalle complesse elaborazioni che ha inseguito per tutta la vita e ne dà una matura formulazione in questo corpo a corpo con Diane Arbus, né venerata né derisa, ma assunta a modello di un vero e proprio ingigantimento del suo discorso figurativo che assume peso e spessore riguadagnando una presenza fisica che preme letteralmente sulle coscienze di chi osserva e potrebbe chiedersi, dubbioso: ma dove veramente vuole arrivare un artista del genere? Pensa veramente di potersi affacciare sull’abisso della vita che vede oltre se stessa proprio mentre resta duramente incardinata sulla soglia della sparizione e dell’angoscia? E deve ammettere che resiste, invece, energicamente.
Angelo Titonel e la "vitalità del negativo"
di Francesco Faeta
Omaggio a Diane Arbus di Angelo Titonel è una mostra fuori dal comune, di singolare forza espressiva, che sollecita una miriade di considerazioni, soltanto alcune delle quali, per evidenti doveri di stringatezza, posso trasferire sulla pagina.
La prima di tali considerazioni concerne, ovviamente, il rapporto tra fotografia e pittura (un rapporto su cui già si era soffermata Marina Miraglia, nel testo di presentazione di un’altra recente mostra dell’artista). Come spesso è accaduto dall’invenzione della fotografia in poi, i due mezzi dialogano e si scambiano reciprocamente ruoli e funzioni. Se la fotografia, nell’intento di nobilitarsi, mimava la pittura, quest’ultima, per mettersi in questione, adoperava la prima riconfigurando piuttosto radicalmente i termini delle proprie poetiche. Due mostre mi vengono prepotentemente in mente, in proposito, osservando la opere di Titonel (due mostre dentro le quali esse si sarebbero ben inserite, a mio avviso, portando al loro interno nuovi elementi problematici). Mi riferisco a Vitalità del negativo nell’arte italiana, 1960/70, inauguratasi a Roma, presso il Palazzo delle Esposizioni, sul finire del 1970. Un’iniziativa che affermava l’idea del negativo quale oggetto generatore di senso. Un oggetto in cui s’identifica l’opera artistica, a prescindere dalle tecniche con cui è realizzata, al fine di dare significato al mondo, contribuendo contemporaneamente a modificarne la percezione. Mi riferisco, poi, a Combattimento per un’immagine. Fotografi e pittori, tenutasi a Torino, presso la Galleria Civica d’Arte Moderna, poco più tardi, nella primavera del 1973, che offriva uno spaccato esauriente, all’epoca (un’epoca ancora del tutto analogica, in cui le nuove questioni poste dal digital turn non erano sul tappeto), dei legami, delle dialettiche, delle fratture intercorrenti tra i due mezzi. In questo spazio romano, la pittura s’impadronisce della fotografia, attraverso le sue tracce referenziali, pur se liberamente dimensionate, e tramite la sua matrice negativa; e la fotografia s’impadronisce della pittura, rubandole il colore e la sua capacità di creare risonanze impreviste e inusitate, secondo le regole di una tavolozza liberamente creata dall’autore. Il rovesciamento dell’immagine vira verso un blu dominante, con un libero riferimento ai blueprint di Francesca Woodman, cui era assegnato un analogo compito di svelamento dei confini intercorrenti tra realtà e rappresentazione e tra quest’ultima e il regime delle idee e dei concetti.
La seconda delle considerazioni concerne il legame tra il trasparente intento riflessivo di Titonel e la scelta della fotografa sulla quale lo ha esercitato, Diane Arbus. Un legame altamente significativo, a mio avviso, che conferisce alla sperimentazione dell’artista uno spessore molto profondo. Arbus, artista tormentata il cui lavoro non è stato ancora del tutto decifrato dalla critica, è stata, assieme a Woodman, Nam Goldin, Cindy Sherman, una fotografa che ha saputo esplorare con intensa drammaticità aspetti inquietanti e sgradevoli della condizione umana e, in particolare, di quella femminile. A differenza delle altre sue colleghe, cui molti aspetti esistenziali ed intellettuali la legano, l’obbiettivo di Arbus non si è volto su se stessa, come con inesausta capacità investigativa hanno fatto le altre, ma sul mondo esterno. E’ vero, come è stato spesso rilevato dalla critica, particolarmente statunitense, che i sembianti degli altri restituiti da Arbus sono assai spesso ritratti di se stessa, delle proprie paure, angosce, pulsioni e repulsioni; ma è pur vero che la sua analisi si è risolta in una denuncia impietosa dell’implausibilità del mondo attraverso l’illustrazione degli universi poetici e disperati di coloro che ne sono al margine. I repertori della fotografa sono una costante sfida al senso comune, a quella banalità del quotidiano, a quel “pensare in modalità predefinita”, così implacabilmente denunciati anche da uno scrittore che, al di là di molte differenze, io sento vicino allo spirito della fotografa, David Foster Wallace (si pensi al lapidario discorso da questi pronunciato all’inaugurazione dell’anno accademico presso il prestigioso Kenyon College, nell’Ohio, il 21 maggio 2005, pubblicato con il titolo Questa è l’acqua). Dunque la scelta di Arbus, per Titonel, non è certamente casuale. Egli stesso lo dichiara: “In passato sono stato spesso a New York e in altri Paesi degli Stati Uniti dove sono stato colpito dalle molte contraddizioni, ben documentate dagli scatti, spesso impietosi, in bianco e nero, di Diane Arbus, ed a me utili per reinterpretarle alla mia maniera, in negativo e con colori complementari, suggeriti da una specie di tavolozza da me creata. Mi interessava cogliere un’essenza differente dei protagonisti di quegli scatti, restituire un’immagine inusuale, estrapolata dal contesto, in taluni casi mettendo in rapporto dialettico su una stessa tela figure prese da differenti fotografie”.
Vi è un forte legame, insomma, tra la volontà di svelare il mondo muovendosi nei meandri dei suoi margini della fotografa e l’intento di svelare i percorsi illusori della realtà del pittore. Il gioco di inversione, di dialogo, di conflitto che Titonel mette in scena non sarebbe stato possibile (e comunque non avrebbe avuto lo stesso spessore e la stessa efficacia) se le fotografie prese a pre-testo fossero state altre. Bisogna ricordarsi che “le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere”, come ricorda ancora Foster Wallace, e che il senso della vista possiede una responsabilità enorme nel costruire mondi che s’impongono per la loro ovvietà, di cui non siamo in grado di decifrare il senso e di cui alla lunga perdiamo del tutto la padronanza.
E quest’ultimo passaggio mi conduce alla terza considerazione che questa mostra mi sollecita. Quella che riguarda la responsabilità specifica della pittura nel decostruire gli universi visivi che ci sono consueti e nel restituirci, dunque, il senso intimo dello sguardo e, attraverso di esso, la comprensione effettiva della realtà e del nostro stesso vissuto. E’ stato scritto tante volte e io giungo buon ultimo. Da quando gli strumenti ottico-chimici di riproduzione della realtà hanno liberato la pittura dai suoi obblighi referenziali, si è aperto un campo nuovo e di vertiginosa profondità che attiene all’esplorazione del senso ultimo delle cose che appaiono, che le restituisce una funzione epistemologica. I negativi di Titonel, artista che manifesta una radicata sensibilità sociale e che ha sperimentato il suo sguardo in alcuni luoghi di frontiera della modernità (quali gli Stati Uniti, a esempio), s’inseriscono in questo percorso, denunciando con trasparenza la motivazione profonda della loro libertà pittorica (che risiede anche nella fotografia). E lo fanno senza accorgimenti vistosi, con mezzi tutti interni al proprio linguaggio: un’alterazione delle proporzioni, un leggero shifting prospettico, l’impiego inaspettato del colore e soprattutto le consistenze materiche del gesto, della pennellata, della tela, dei colori; degli odori che promanano dal quadro. Un universo di segni pittorici che ha il compito di serrare le fila del gioco decostruttivo e riflessivo che l’autore ha intrapreso, per ricordarci il fine ultimo dell’operazione artistica. La sua arte mostra – servendomi delle parole di Claude Lévi-Strauss (Ad una giovane pittrice) – “l’ambizione di mettere la pittura al servizio della conoscenza, e di fare dell’emozione estetica un effetto della coalescenza – resa istantanea mediante l’opera – tra le proprietà sensibili delle cose e le loro proprietà intellegibili”.