Questi nuovi fiori coltivati
che nascono d’inverno fuori tempo
e anche in luoghi che sono fuori luogo
hanno uno strano modo di morire.
Morti lo sono già, perché recisi,
perciò di loro si può osservare solo
il modo del disfacimento. Alcuni
d’improvviso si squagliano in pappette ripugnanti,
altri aprono i petali ormai arresi
ma poi come storditi ci ripensano,
si fermano, tornano indietro a chiudersi
secchi e impalliditi.
– Patrizia Cavalli
Maja Arte Contemporanea è lieta di ospitare la doppia personale di Isabella Ducrot e Claire de Virieu a cui Patrizia Cavalli dedica una poesia inedita.
In mostra un corpus di opere di recente produzione che sorge come un dialogo tradotto visivamente tramite il mezzo fotografico di Claire de Virieu e i pigmenti su carte di Isabella Ducrot.
Non si tratta di uno spazio intimo e di intesa bensì di un teatro che mette in scena due narrazioni visive apparentemente consonanti tra loro per il tema comune, i vasi e le nature morte, che invece sorprendono lo spettatore per la forza della loro dinamica dissonante, quasi un contrappunto dove i temi si rincorrono senza quiete.
I vasi della Ducrot hanno un che di irriverente rispetto allo sguardo: gli oggetti irrompono nello spazio che ha il sapore effimero di un luogo “fuori luogo” senza alcuna indicazione, se non talvolta un accenno ad un tovagliato a quadretti o delle onde marine, come se la loro ragione d’essere fosse definitivamente assoggettata alla loro stessa bellezza: “Il loro modo d’essere riguarda il loro apparire. Non sono natura ma tutto artificio. L’artista che rappresenta i vasi deve averli visti come vivi nel senso di belli a vedere, per questo li ha dipinti o fotografati.” (Isabella Ducrot)
La tracotanza della loro solitaria bellezza in qualche caso si disfa arrendendosi a una inevitabile dispersione nello spazio di ciò che essi contengono, perché sono dei contenitori. Il loro contenuto, in una sorta di ribellione, evapora e sfugge alla forma, alla categoria della rotondità per disperdersi in un gioco di nuove forme.
Le photogrammes di Claire de Virieu tengono a freno la bellezza assoluta dei loro vasi, liberano lo sguardo dalla superficie e dirigono l’occhio oltre la forma visibile. Sembrano infatti voler superare il limite dello spazio e del tempo, tra contenuto e contenitore, tra ciò che appare (il fenomeno) e ciò che è, risolvendo così in un gioco imprevedibile di luci e di ombre, di bianchi e di neri, l’eterna battaglia tra forma e sostanza, tra ciò che l’occhio vede e ciò che l’immaginazione prevede o desidera. I suoi vasi, che svelano un contenuto non arreso al disfacimento, quasi a resistere a quell’estremo passaggio dove la forma si arrende, possiedono tutta la forza e la risonanza di una imprevedibile vitalità: “Nella camera oscura, senza pellicola e senza macchina, l’atto del fotografo forma direttamente la materia: giochi d’ombra e di luce, libertà di accogliere e di modellare più o meno l’una, più o meno l’altra. È grazie alla loro perpetua lotta che sorge l’immagine. Le mani del fotografo agiscono sulle trasparenze luminose disposte sulla superficie sensibile, ma senza i contorni definiti l’immagine non può che rispondere come una eco al suo desiderio …” (Claire de Virieu)