In celebration of its tenth anniversary, Maja Arte Contemporanea stages its first-ever pop-up at Casa Branca‘s new atelier in Palm Beach, featuring new works by the Rome-based Lebanese-Italian artist Gilbert Halaby. Curated by Daina Maja Titonel, the exhibition is accompanied by a catalogue which includes an essay by art historian and critic Giovanna Dalla Chiesa.
On show a selection of paintings that range across four series. There are several depicting “the everyday theatre of Rome; the serendipitous and surreal encounters of various people and personages that I see every day, within the landscape of the city,” as the artist describes them.
A second series takes the olive tree as its subject—playing both formally, with its provocative natural forms, and conceptually, with its significance as an avatar of nature’s strong, eternal beauty. “After my partner and I bought our own olive grove in the Roman countryside, and had our first harvest last autumn, I wanted to express the joy of that experience; it was always a dream to own my own olive grove, having grown up playing in the one belonging to my aunt in the north of Lebanon. The singular peace of picking the fruit, being so close to the trees and to nature, entirely away from human noise and hustle. Our vistas felt wider, the sun brighter. Our freedom felt somehow larger than before; I wanted to capture that with these paintings.” In many of the canvasses, the trunk is depicted chromatically split, often with one side rendered in red — representing the shared connection we have with the earth, through the trees.
The third series plays with the form and idea of home. The home has always been a core theme of Halaby’s art, from the time he drew them as a child. These paintings also represent an evolution of Halaby’s formal style, seeing the artist fill his canvas completely and rigorously with colour and geometry. Houses are set in the context of a paysage, but one which is deconstructed and recomposed in representative colour blocks, distilling the elements of nature to beautiful signifiers. “Everything is reduced but also amplified: the blue of the water—a brook, or lake; the yellow of the sun; the warm amber-russet tones of earth; the green that is the perennial shade of nature,” Halaby says.
Finally, Halaby engages with the idea of portraiture, via a collection of silhouettes—sometimes seen in three-quarter view, the profiles precisely rendered but the facial features themselves only hinted at. The artist privileges what the subject is regarding—often the unmistakable shape of home—as much as he does the human subject itself. “I place the portrait in the landscape always, because we ourselves seek nature, we seek home—to my mind, the natural landscape is always our natural home.” The silhouette series includes the first self-portrait by Halaby, depicting him gazing towards two cardinal ideas of his work, and life: the home, and the tree—the two most elemental forms of safe harbour.
Selezione opere
Testo critico
L'arte est-etica di Gilbert Halaby
di Giovanna Dalla Chiesa
C’è qualcosa di straordinario nella personalità di Gilbert Halaby dove eleganza, semplicità, verità e fedeltà ai propri principi si trovano a proprio agio con esprit bon vivant, senso della circostanza felice e insieme della transazione e del commercio.
È una storia che merita di essere raccontata, la sua.
Poco più che ventenne, Gilbert Halaby giunge a Roma dal suo Libano, dove a ogni passo accade d’inciampare nelle rovine romane o di altre antichissime civiltà, dopo aver studiato archeologia. Nel cuore custodisce un sogno, quello di essere un pittore. Sin da bambino ha assistito al miracolo della creazione spiando il padre di un’amica dipingere in solitudine. A Roma, nell’apertura della città definita eterna, dove le molteplici culture accolte dall’impero romano, hanno potuto integrarsi costituendo la straordinaria ricchezza che la caratterizza, le radici di quello che, nel Libano delle origini, era ugualmente e nobilmente presente, si è fatto vivo e denso di opportunità, le stesse di cui i cittadini di Beirut godevano come colonia romana, quando con molti altri benefici erano esentati dal pagamento delle tasse. Roma ha potuto incarnare in questo modo, per lui, la condizione di privilegio e di libertà che avrebbe allontanato i tragici scenari di un paese percorso nell’attualità sempre dalla guerra e ricongiungerlo a un’epoca mitica, dove il mosaico di quelle culture si è finalmente ricomposto.
Al pragmatismo, dettato dalla necessità di dedicarsi ad attività limitrofe a quelle dell’arte – come il design e la moda, sicuramente più redditizie, da cui poi si allontanerà – senza incorrere mai in scelte troppo rigide, si è accompagnato il desiderio di non smettere mai di studiare per continuare una formazione, ancora oggi in itinere, affinando capacità di osservazione e di riflessione, secondo una gestione opportuna del tempo, per poterle attuare.
La vita è andata a disporsi con naturalezza, in questo modo, su due binari paralleli: quello della vita pratica e quello della vita contemplativa, incrociando a tratti un binario con l’altro, ma a passo lento, senza obiettivi preordinati, lasciando accadere le cose.
Non è forse già questo il requisito ideale per situare ciò che avvertiamo dentro di noi, nella prospettiva giusta a incontrarlo anche fuori di noi? Giorno dopo giorno, Gilbert Halaby ha messo le premesse per rompere quella concatenazione temporale che lega causa a effetto e progressivamente è venuto a porsi in una dimensione fuori dal tempo, dove il prima e il dopo non sono più percepiti come distanti fra loro, ma invece come compresenti e sullo stesso piano, l’uno vicino all’altro. Una condizione di natura metafisica, dove il soggetto incontra l’altro, secondo una rifrangenza speculare, come guardandosi dentro a uno specchio.
Simone Weill rifletteva: “cultura è educazione all’attenzione”.
Gilbert Halaby ha osservato molto, ha allertato i suoi sensi ad andare più lontano, incrociando sé nell’altro. Ogni luogo, nel suo universo di fiaba, è tutti i luoghi, ogni cosa è tutte le cose infinitamente, come rincorrendo l’archetipo che, molteplicemente, riposa dentro le fibre del nostro essere e palpita con la nostra stessa esistenza. Ogni albero, ogni casa è ora e sempre, prossimi e distanti al tempo stesso, avvolti in un’aura indimenticabile, ma indicibile: è la casa, è l’albero di ognuno di noi, una volta per tutte, una volta per tutti. Una questione sacra. Non un’icona, o una semplice immagine, ma un simbolo. Per questo, ancora prima di vederne l’effigie, siamo in grado di coglierla dentro di noi con devozione e preveggenza che suggeriscono, semplicemente, l’alveo e il canale in cui immettersi per orientarsi e intraprendere il viaggio.
Non sorprende, allora, che queste siano oggi le ragioni del successo che gli stanno tributando persone di estrazione e culture totalmente diverse con crescente considerazione.
Nell’epoca, dove nulla pare più avere un senso – neppure la vita umana – dove di nessuna cosa è possibile conoscere l’origine, Gilbert Halaby comunica l’essenziale – ciò che è puramente necessario – con forme che persino un bambino saprebbe decifrare, perché risvegliano la radice primordiale verso cui ogni nostro orientamento si dirige, secondo un tropismo naturale.
L’economia di queste forme evoca quella del paesaggio greco, cui Gilbert Halaby è legato almeno quanto lo è all’Italia, anche se in modo differente. Lì persino i templi sono privi di magniloquenza e a misura d’uomo. Al profilo di una casa non si accompagna in genere molto di più di un albero e di un animale – capra o asino – dotato dell’opportuna legatura. D’altra parte, in greco, pittura ha la stessa radice di scrittura. E infatti, il colore locale, a campiture uniformi, nella pittura di Gilbert Halaby, è “scritto” quanto dipinto, nel senso che il segno ha in essa un’importanza decisiva.
In alcuni piccoli quadri del ciclo Une Comédie Romaine (2023) il segno è protagonista persino a dispetto del colore – pur tanto importante nel suo lavoro – come di qualsiasi altro schema di rappresentazione. Anzi è l’unico elemento a sottolineare l’inquadratura, l’andamento e il percorso dei personaggi.
L’aneddotica apparente che in questa serie romana sembra guidare il pittore, non sarebbe così fragrante e neanche tanto icastica da evitare tentazioni bozzettistiche nell’affrontare un racconto – che sembra riportarci invece alle storie delle predelle d’altare del quattrocento – se la capacità di astrarre da ogni orpello, non fosse scritta nell’essenza delle apparizioni – in uno scenario sempre mutevole, ma al tempo stesso fermo e come inciso nello scorrere del tempo.
Svuotare, arrivare allo scheletro del visibile e al limite dell’invisibile è quanto i moderni hanno appreso dagli antichi – il “profilo” degli egiziani, secondo i cubisti, o il canone delle icone bizantine, per i pittori astratti – l’alfabeto e la scrittura sono codici che non hanno quasi nulla in comune con ciò che chiamiamo “realtà”. La spiritualità più alta, non ha mai cercato la rappresentazione, al contrario, fa astrazione da essa.
È curioso pensare che l’invenzione del primo alfabeto fonetico, costituito da 22 segni, sia attribuito ai Fenici, la popolazione di ceppo semitico che abitava il Libano. A quei segni, i greci aggiunsero le vocali e poi altri suoni.
Dunque non c’è da stupirsi che la scrittura accompagni da sempre la pittura nel comportamento di Gilbert Halaby, che ne fa ora il doppio registro su cui orchestrare il proprio modo di offrirsi al resto del mondo. Non solo i frammenti poetici – come nel catalogo della mostra Domus Berytus al Beit Beirut Museum (marzo 2023) – ampliano la conoscenza dell’animo dell’artista, benché totalmente autonomi dai dipinti, facendo eco alle immagini, ma l’autore ha trovato un magnifico espediente letterario e psicologico, dedicando una lettera al sé stesso adolescente in occasione di ogni mostra che, oltre a stabilire un dialogo tra presente e passato, circoscrive il suo universo, suggerendo la forma indiretta per entrare più profondamente in contatto con questo sognatore solitario.
La scrittura è la voce che si aggiunge all’esperienza visiva.
Nel ciclo pittorico Domus Berytus, la vibrazione di questa voce, simile a un suono silenzioso, si espande a onda intorno alle scarne immagini, suggerendo la forza di un desiderio, il richiamo di una nostalgia che risucchia nella lontananza ogni segno.
L’attuale tappa “Un apogeo di luce” corrisponde al coronamento di un altro sogno, questa volta in prospettiva: non solo una casa, ma un bosco di olivi.
Gilbert Halaby ha trascorso la propria infanzia giocando fra le rovine di un tempio circondato da ulivi, non poteva tardare ancora a creare le condizioni per ritrovare quell’unità tra cultura e natura di cui si è sempre nutrito.
La creazione ha bisogno di ristabilire un’armonia tra la nostra concezione del mondo e il nostro sistema di vita.
Questi olivi, attraversati dalla luce, tagliati a metà dentro le pareti di una casa, come accade quando la natura si riappropria con forza di spazi che l’uomo ha cercato di sottrarle, sono una promessa di futuro.
Non sono pochi i versi con cui Gilbert Halaby sembra spronare l’umanità, verso una più alta espressione di vita nella pace e nella concordia, nella cultura e nella convivenza fra gli uomini. Dalla parsimonia dei suoi segni, non si ricava semplicemente armonia e bellezza, ma anche un sentimento etico. La sua estetica è, letteralmente, est-etica. Le sue piccole icone sono degli exempla (1), come tutta la sua vita che, infatti, può davvero essere presa ad esempio.
Upskill your eyes to metamorphose into a better poet,
To scrutinize the beauty in other poems.
To take delight in what other souls left behind.
Upskill your soul
scrive Gilbert Halaby.
(1) Exemplum (pl. exempla) è la forma letteraria breve, tipica della letteratura medievale, di argomento didattico e moraleggiante, dove la vicenda narrata vuole avere valore “esemplare” di modello di condotta etica.